Riconoscere i diamanti etici
La storia dei diamanti è la storia dei rapporti dell'Occidente con l'India, che fino al XVII secolo è stato l'unico deposito conosciuto all’uomo.
Il nome deriva dal greco «adamas», che indica un materiale invincibile, oltremodo duro. Questa definizione, tuttavia, non aiuta a rischiarare il significato delle testimonianze più antiche giunte a noi, perché impedisce di distinguere con certezza il riferimento alla gemma di carbonio da quello ad altri materiali di notevole durezza. Per lungo tempo i diamanti vennero utilizzati solo per tagliare altre gemme o forarle, e furono solo la fascinazione dei romani e i loro intensi commerci con l'India a diffonderne l’uso decorativo nei gioielli.
Tuttavia, ad un certo punto, i diamanti sembrano scomparire, poiché a causa del secondo impero persiano i rapporti con l’India cessarono quasi completamente. Soltanto nel XIII secolo cominciano a ricomparire testimonianze sui diamanti. Fu proprio a questo punto che «adamas» perse il prefisso «a-»: eccoci al sorgere dell'arte del taglio e della sfaccettatura! Il diamante è vinto! Ah, che luce!
La filiera tradizionale dei diamanti naturali
I diamanti naturali possono provenire da giacimenti primari o secondari.
Nei primi le gemme si trovano agglomerate all’interno di una tipologia di roccia ibrida chiamata kimberlite, che deve essere sgretolata per il recupero dei diamanti. Questi siti estrattivi possono essere a cielo aperto o anche svilupparsi a notevoli profondità, e richiedono un importante supporto tecnico.
I giacimenti secondari, invece, riguardano quei diamanti che, per via di processi erosivi, sono stati trascinati lontano dal loro punto di origine. Si tratta di depositi alluvionali, ovvero valli fluviali, piane alluvionali, aree di foce, alvei fiuviali e fondali marini. In questo caso le attrezzature richieste possono essere anche molto semplici, come setaccio e batea, perciò il processo estrattivo può essere eseguito anche in maniera artigianale.
Ogni anno vengono estratti circa 130 milioni di carati di diamanti grezzi, di cui il solo il 20% con qualità da gemma. Il settore è dominato dai giganti ALROSA e De Beers. Russia, Botswana, Canada e Australia sono i maggiori produttori, mentre da dieci delle miniere più grandi arriva più di metà della produzione mondiale. L’85% dei diamanti arriva da miniere LSM, la restante parte da miniere ASM che, essendo estremamente vulnerabili, costituiscono, anche in questo caso, l'oggetto principale delle nostre preoccupazioni.
Dopo che i diamanti sono stati estratti, vengono esportati nei “trading hubs” (Anversa, Dubai, New York, Israele, India e Hong Kong), dove sono raggruppati in lotti per forma, colore e dimensione. Possono essere venduti molteplici volte prima di essere tagliati. Possono addirittura essere spostati, sia grezzi che semilavorati, attraverso diverse giurisdizioni prima di venire finalmente impiegati nella realizzazione di gioielli. In questo sistema la tracciabilità è naturalmente persa fin quasi dall’inizio.
Per via della mano d’opera a bassissimo costo, almeno il 70% dei diamanti è tagliato e lucidato in India e il 20% in Cina, ma quelli di maggior valore continuano a essere lavorati ad Anversa. A questo punto non siamo ancora arrivati alla fine della filiera, perché sarà solo dopo essere passati tra le mani di diversi intermediari, sempre separati e ricomposti in lotti, che i diamanti finiranno nelle vetrine.
Blood diamonds (diamanti di conflitto)
Occorre partire dalla lunga guerra civile in Angola, iniziata nel 1975, una delle tante guerre per procura che caratterizzarono la guerra fredda. All'indomani del crollo dell'Unione Sovietica, il fronte opposto trovò il modo di sfruttare la situazione ed ebbe così inizio un fitto scambio di diamanti e di armi. Agli attori in campo lo scenario andava così bene che Savimbi, allora leader rivoluzionario e guerrigliero, venne aiutato a meccanizzare le miniere per renderle più produttive.
Al finire del millennio, però, gli interessi cambiarono, la situazione precipitò e nel dicembre del 1998 il report “A rough trade” della ONG britannica “Global Witness” portò i fatti agli occhi di tutti. Pochi mesi più tardi la risoluzione 1173 dell'ONU sancì l’embargo per i diamanti provenienti dall'Angola e sprovvisti del certificato di origine emesso dal governo. Un’impresa molto difficile e destinata all’insuccesso, perché i certificati erano molto facili da contraffare e i diamanti di questo territorio, nella loro forma grezza, sono indistinguibili da quelli del vicino Congo.
Nel 2000 arrivò un nuovo report, questa volta dalla ONG canadese “Partnership Africa Canada (PAC)”, che si intitolava “The heart of the matter” e denunciava la situazione del Sierra Leone, allora attraversato da una feroce guerra civile. Anche in questo caso, il traffico e lo sfruttamento legati al commercio dei diamanti avevano un ruolo centrale. Arrivò una nuova risoluzione dell’ONU e un nuovo embargo, questa volta accompagnato da un primo sistema di controllo per il commercio diamanti grezzi.
Fino all’inizio del Novecento, fino a quando Mikimoto non riuscì a carpire il segreto della loro nascita, le gemme più desiderate e preziose erano le perle. Quando però il loro costo divenne più accessibile e De Beers, allora senza concorrenza, riuscì nell’impresa di associare i diamanti all’amore attraverso la campagna “A diamond is forever”, il loro potere simbolico cambiò per sempre. I diamanti erano diventati la chiave della percezione del valore in gioielleria. Fu così che quando le notizie dell’Angola e del Sierra Leone cominciarono a divenire di dominio pubblico, avvenne lo strappo nel cielo di carta e un’intera industria, quella che assicurava l’amore all’eternità attraverso una gemma - apparentemente - indistruttibile, venne messa a nudo. I diamanti potevano essere ancora un simbolo d’amore o, al contrario, stavano diventando sinonimo della violazione dei diritti umani?
Nel maggio del 2000 cominciarono i lavori per il “Kimberley Process”, nel mese successivo venne fondato il “World Diamond Council” e nel 2005 il “Responsible Jewellery Council”.
Il Kimberley Process
Il Kimberley Process Certification Scheme (KPCS) è lo standard internazionale più prominente riguardo ai diamanti e opera sotto l’egida dell’ONU.
È stato lanciato nel 2003 per impedire il commercio dei “diamanti di conflitto” ed è controllato e guidato dai partecipanti, che sono 55 e rappresentano 82 Paesi (l’UE vale come uno). La partecipazione è volontaria, ma i membri devono implementare la loro legislazione al fine di raggiungere alcuni requisiti minimi. Rappresentanti dell’industria come il World Diamond Council, o ONG come il Kimberley Process Civil Society Coalition, possono partecipare ai lavori soltanto in qualità di osservatori.
Il KPCS ha permesso di sottrarre molti diamanti al mercato nero, di obbligare gli stati partecipanti a implementare le loro legislazioni, e anche di migliorare le statistiche e i report sulla produzione e sul commercio nel settore.
Tuttavia il KPCS è bel lontano dal poter essere indicato come una garanzia etica.
I punti di debolezza di questo sistema sono gravi e molteplici:
- Tabu sui diritti umani e la tutela ambientale.
- Uso di una definizione datata di “diamanti di conflitto”, che comprende solo gli abusi perpetrati dai “ribelli”, ignorando quelli operati dagli stessi governi o dai privati. La natura dei conflitti è cambiata radicalmente dallo scorso secolo (approfondimento nel prossimo paragrafo).
- È applicato soltanto ai diamanti grezzi, permettendo così alle gemme semi lavorate e già tagliate di muoversi liberamente.
- Si è dimostrato più che reticente nell’imporre sanzioni a quei paesi che non hanno rispettato i requisiti minimi, come nel caso della Repubblica Centrafricana.
- La forma punitiva è quella del divieto di esportazione.
Questo non solo è inutile (il 90-95% dei diamanti della Repubblica Centrafricana riesce ancora a essere contrabbandato), ma controproducente, perché mette in difficoltà le comunità dei minatori artigianali.
- Richiede la documentazione relativa al solo Stato di origine, non alla specifica miniera di origine.
Il Kimberley Process ha un ruolo molto importante, ma senza le necessarie riforme e implementazioni questo ruolo è molto - troppo - limitato. La filiera dei diamanti naturali è complessa e non lascia spazio a soluzioni semplici e veloci, ma se non accettiamo i fatti per come sono e non facciamo pressione sul settore e sui governi, soltanto perché il KPCS è facilmente presentabile ai consumatori come una garanzia di controllo etico, allora impediremo anche qualsiasi possibile lento miglioramento.
I nuovi diamanti di conflitto
Il mondo è cambiato dai tempi di quel report del 1998 e ora i diamanti sono coinvolti anche in nuove forme di conflitto e in nuove violazioni dei diritti umani. Tuttavia, a causa delle limitazioni sopra discusse, questi diamanti riescono comunque ad accedere al mercato internazionale e a essere etichettati come “conflict free” secondo il Kimberley Process.
Gli attori in campo non sono più soltanto i cosiddetti “ribelli”.
Gruppi armati parastatali, polizia e militari, agenzie di sicurezza private assunte dalle compagnie minerarie, bande e minatori artigianali, ma anche le stesse compagnie minerarie, aziende statali e centri di produzione possono essere responsabili di:
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violenza sistematica, nella forma di percosse, uccisioni e torture di minatori artigianali e abitanti dei villaggi (Zimbabwe, Tanzania, CAR, DRC, Angola);
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violenza sessuale, inclusi atti di persecuzione, stupri, abusi e sfruttamento (Zimbabwe, Tanzania, CAR);
- crimini ambientali, tra cui inquinamento del suolo, dell’acqua e dell’aria, e distruzione del paesaggio (Sierra Leone, Lesotho).
Desidero invitarvi alla lettura di due report recenti:
- “The Impact of COVID-19 on African communities affected by diamond mining” di KPCSC, giugno 2020;
- “Money laundering and terrorist financing through trade in diamonds” di FATF, ottobre 2013.
I diamanti artificiali o LGD (lab-grown diamonds) rispondono a un'etica spicciola
È facile credere che i diamanti artificiali, non implicando operazioni minerarie, siano per propria natura etici e sostenibili, ma non è affatto così.
La produzione di un diamante artificiale genera 511kg di CO2 a carato, ovvero quasi quanto un volo Parigi-NY a persona. L'estrazione di un diamante naturale dello stesso peso in una miniera LSM, invece, produce 160kg di CO2. Inoltre, poiché nelle miniere ASM l'utilizzo di macchinari è esiguo, se non assente, l'impatto ambientale di questa tipologia di operazioni è ancora inferiore.
È importante rilevare che i diamanti artificiali non sono prodotti già pronti per essere utilizzati, ma necessitano di essere tagliati e lucidati come i diamanti naturali. Per giunta, poiché fabbricare un diamante di colore giallo è molto più veloce ed economico del realizzarne uno bianco, è anche sempre necessario ricorrere a trattamenti per arrivare al colore più desiderato. Visto che il loro prezzo deve essere contenuto, queste operazioni avvengono in fabbriche a basso costo, e attualmente non si conoscono i nomi di tutte le aziende che producono diamanti artificiali.
Preferire i diamanti creati in laboratorio a quelli naturali, in gioielleria, può rispondere a una ragione economica, al massimo a una necessità di progettazione, ma mai a un’etica che mira sinceramente alla sostenibilità. Boicottare i diamanti naturali non solo non risolverebbe direttamente nessuno dei problemi che conosciamo bene, ma causerebbe una contrazione della domanda e una devastante reazione a catena. Allora ci allontaneremmo ancora di più dal miglioramento auspicato e il prezzo verrebbe pagato da chi, a monte della filiera, è più debole, ovvero i minatori artigianali e le comunità locali.
Diamanti riciclati
Al momento non utilizziamo diamanti naturali riciclati (post-consumer), in quanto non ho ancora trovato una fonte in grado di fornire adeguate garanzie di trasparenza. Sopratutto, però, la mia preferenza sarà sempre verso le filiere che apportano benefici ai minatori artigianali.
I nostri diamanti: diamanti Canadamark
In Canada ci sono giacimenti primari di diamanti e, al momento, le miniere attive sono diverse e tutte di tipologia industriale. In particolare, nei Territori del Nord-Ovest, c’è la miniera Ekati, che non solo è stata la prima del paese, infatti è produttiva dal 1998, ma è quella i cui diamanti vengono commercializzati attraverso un programma di certificazione. Si tratta della certificazione “Canadamark”, capace di garantire l’integrità della filiera a partire dal sito estrattivo.
I diamanti rinvenuti a Ekati vengono prima puliti, ispezionati e classificati a mano in Canada, per essere poi spediti, ancora in forma grezza, all’ufficio vendita, che ha sede ad Anversa. Da qui vengono venduti direttamente ai produttori accreditati, che si occupano del taglio e della lucidatura delle pietre e hanno sede a Toronto, a Mumbai e ad Anversa. Si tratta di: Corona Jewellery Company Ltd., Finestar Jewellery & Diamonds Pvt. Ltd., Kapu Gems, Mahendra Brothers Exports Pvt. Ltd., Shree Ram Krishna Exports Pvt. Ltd., Simoni Gems BVBA, Singh Diamonds, Soradiam NV, Star Rays, Venus Jewel.
I diamanti più grandi sono accompagnati dalla relativa certificazione Canadamark (da non confondere con l'analisi di laboratorio GIA, che si occupa solo delle qualità fisiche della pietra) e da una microscopica iscrizione alfanumerica identificativa. I diamanti più piccoli, in gergo chiamati melee, per via delle loro dimensioni non possono avere un certificato individuale, perciò vengono commercializzati in lotti sigillati e numerati.
In foto un lotto di diamanti Canadamark melee aperto.
Anche se i diamanti certificati Canadamark rispettano criteri di responsabilità, non credo siano la soluzione al problema, ma soltanto un punto di partenza. La nascita, lo sviluppo e il successo di Oro Fairtrade, provano che i processi estrattivi da miniere artigianali in aree problematiche, se guidati e tutelati con pazienza e collaborazione internazionale, possono costituire una fonte di sviluppo sostenibile di tipo sociale ed economico per le comunità.
I nostri diamanti: Ocean Diamonds
Lungo le coste tra la Namibia e il Sud Africa, nei pochi giorni nei quali le correnti sono meno violente, è possibile vedere, molto vicino alla riva, uomini con la muta cercare qualcosa sotto la superficie dell’acqua, oppure, giusto poco più lontano, imbarcazioni che non sono pescherecci, ma che hanno un piccolo equipaggio di sub comunque interessato a qualcosa nascosto sott’acqua. A guardare meglio si nota che non vengono cercati pesci o molluschi, e che quegli uomini indaffarati sulle barche non fanno che prendere e lasciare sabbia, cercando qualcosa che non si riesce a scorgere da lontano. Si tratta di pescatori di diamanti a lavoro.
Dai depositi nel cuore dell’Africa, attraverso piogge, torrenti e fiumi, i diamanti si spostano lentamente, fino ad arrivare al mare. Il viaggio è tortuoso, perciò soltanto le pietre più resistenti riescono a raggiungere la destinazione - anche i diamanti sono fragili.
I sub non esplorano profondità superiori ai 10 metri perché, addirittura nei giorni migliori, la visibilità causata dalle correnti è tale che riescono solo a raccogliere poco materiale per volta, ovvero sabbia e detriti, e portarlo sulla barca per ispezionarlo. A questa fase di indagine segue il lavoro di raccolta operato e guidato dall'imbarcazione.
Dalla riva il prezioso pescato raggiunge l’ufficio di Johannesburg, dove i diamanti vengono tagliati in base alle richieste specifiche, o anche lasciati grezzi, per essere utilizzati così come la natura li ha creati. La tappa successiva è Falmouth, in Cornovaglia, dalla quale le gemme vengono spedite alle aziende orafe del programma per essere trasformate in gioielli.
La filiera Ocean Diamonds nasce da un lavoro decennale e colpisce per la sua brevità, perché coinvolge, a parte gli spedizionieri e gli uffici di controllo per il KP, soltanto l’azienda sudafricana, l’intermediario inglese e i laboratori orafi. In questo sistema non solo l’intero valore dei diamanti resta nel paese di origine, ma vengono meno anche le tante zone d’ombra del KP, permettendo così di lavorare con diamanti tagliati e grezzi africani che arrivano da conosciuta.
Non credo che questi diamanti siano tanto meno impattanti rispetto a quelli canadesi (operazione LSM), ma li preferisco perché arrivano dal continente africano.
Diamonds for Peace, una speranza per il futuro
Anche se i diamanti australiani e canadesi vengono spesso etichettati come "etici", credo siano ben lontano dall'esserlo: hanno soltanto il beneficio di essere prodotti in paesi non associati ai fatti dei blood diamonds e a guerre civili.
Cosa fare con i diamanti africani, in special modo con quelli da miniere artigianali? Non potrebbero diventare una risorsa per intere comunità come è stato l'oro certificato Fairtrade? Non potrebbero diventare…etici?
A luglio 2018, durante una conferenza a Londra, ho conosciuto Chie Murakami, fondatrice della NGO "Diamonds for Peace".
Si tratta di un progetto strabiliante che, se tutto andrà bene, tra 4-5 anni consentirà di avere sul mercato i primi diamanti etici provenienti da miniere artigianali africane.
I primi diamanti da miniere artigianali africane, proprio quelle miniere dove generalmente si lavora per dodici ore ricevendo in compenso un dollaro e una ciotola di riso!
Per il momento l'unico aiuto che possiamo dare a Diamonds for Peace è di tipo economico, perciò spero tanto di poter crescere e destinare a questo progetto più fondi. O di diffonderne così tanto la voce da poter generare tante piccole donazioni private. [leggi di più]